domenica 4 gennaio 2009

Mio figlio in casa famiglia


Questo libro di Stefano Portaccio ci riguarda molto da vicino: vi è tratteggiata la storia della Oberon, una Casa Famiglia di Taviano, quindi nella nostra Provincia; chi uno o più d’uno, molti Servizi territoriali e consultoriali ha, o ha avuto dei bambini o ragazzi in questa Casa. Per tanti, l’autore è di conoscenza ed amicizia personale.
Per i Servizi territoriali, per taluni casi di estremo bisogno e necessità, dopo aver sbrigato ogni iter necessario col TM – Tribunale per i Minorenni -, il reperimento di una Struttura d’accoglienza idonea per ospitare un bambino o un ragazzo privo di un riferimento familiare sul quale contare, rappresenta quella che si sol chiamare ‘la soluzione’. Non sempre ci si rende conto del tutto che quella ‘soluzione’ è solo la porta che apre ad un nuovo mondo, nuovi rapporti, nuove difficoltà.
È un libro alquanto coraggioso questo di Stefano, giacché egli sceglie di mettere a nudo la complessità del mondo dei rapporti che si determinano in una Casa Famiglia. Il sapiente psicologo potrebbe, leggendolo, rimproverargli di non curare abbastanza quel distacco professionale con ‘l’utente’, a garanzia di una maggiore oggettivazione del rapporto. È come quando nel corso di una partita di calcio, ogni spettatore avrebbe potuto fare meglio del protagonista con la palla fra i piedi in campo. Questo non significa che non sia, o sarebbe utile ricercare sempre migliori adeguamenti di azione nel proprio fare, con possibili migliori rese.
Per un certo residuale perbenismo, il mettersi a nudo implicherebbe la precondizione della linearità delle forme. Stefano sceglie di mettere a nudo invece, nel proprio modo di essere e di fare rapporto educativo, anche gli aspetti di difficoltà, con talune eccedenze o insufficienze. Grazie Stefano, di questo tuo lavoro col quale ci rendi partecipi di un mondo che in pochi, di solito, lo si conosce, e anche fra questi, per lo più attraverso il soggiorno o qualche giardino intorno. Tu ci fai entrare invece nel vivo del tuo cuore di padre adottivo.
Grazie all'Editore Cosimo Lupo lupo@lupoeditore.it e all'Autore per il consenso alla pubblicazione del brano - a seguire - della post-fazione al libro. (LP)
UN LIBRO A CUI MANCA L’ULTIMA PAGINA
di Luigi Scorrano

(...)
I protagonisti di questo libro sono due: un ragazzo in difficoltà e un educatore tenace. La loro vicenda è come isolata nella sua esemplarità, ma essa si capisce e si giustifica nel panorama composito che sommuove la scena. Acquistano forte rilievo, perciò, non un pugno di comparse, gli altri, ma un piccolo esercito di comprimari ciascuno dei quali, nel ruolo dello sfortunato o in quello del soccorritore, richiede che la sua storia sia raccontata per comunicare al mondo una di quelle piccole verità che il mondo distratto ignora: che il mondo è salvato se ognuno fa onestamente la sua parte, se ognuno si sforza di cooperare a salvarlo. I ragazzi che da situazioni diverse, ma tutte tristi, arrivano in casa-famiglia sono coloro che uno scrittore francese, Gilbert Cesbron, in un suo romanzo del 1954 indicò come Cani perduti senza collare. Sono esseri che la risacca della vita facilmente travolge e getta sulle desolate spiagge del disadattamento, della delinquenza, della resa ad una sorta di fatalità del male.

Da un deserto privo d’amore, dalle malinconiche distese dell’affettività negata cui li confina la cecità adulta, quegli esseri che vogliono “essere” e nel loro “essere” sono ostacolati, mandano un grido d’aiuto, una voce di pena che vuol essere ascoltata. L’aiuto può giungere, ma non solo dalla spesso gelida struttura burocratica. Può giungere da cuori disposti a spendersi per alleviare qualche sofferenza, per lenire qualche dolore, per far rifiorire qualche speranza sullo stelo di una vita in via di disseccarsi. Per questo c’è bisogno di una fede forte: che può essere profonda convinzione religiosa per alcuni, o semplice fiducia nelle umane possibilità di incontro per altri. Le storie che questo libro narra attingono all’una e all’altra fede in vista di un risultato unico: ridare qualche possibilità a chi sembra aver perduto tutte le occasioni.

È un libro, questo, al quale manca l’ultima pagina. Tutte le storie che narra, anche quella che campeggia con la sua esemplarità, sembrano concluse. Ma di singolare c’è questo: il libro ci lascia immaginare che, mentre noi stiamo ripercorrendo le vicende dei ragazzi qui narrate, altri incontri si preparano, altri fili annoda il destino, altri cammini traccia che conducono al luogo ch’è stato già teatro di tante sofferte e felici esperienze. Lo scrittore che abbiamo ricordato, Gilbert Cesbron, alla fine dei suoi libri salutava i suoi personaggi, si distaccava da loro mandandoli per il mondo con il suo messaggio di fede e di sentimento. Li salutava così: “Addio, dunque, creature del mio cuore”.

Anche i ragazzi le cui storie sono narrate in questo libro sono creature del cuore di chi li ha accolti ed aiutati a tornare ad una vita fitta di difficoltà ma anche di progetti, di pienezza umana. Proprio per questo, però, qui non c’è un addio; il filo annodato resta teso, quell’alveare di ri-formazione che è la casa-famiglia vede le sue api industriose ronzare laboriosamente e produrre uno straordinario miele di umanità. Altre pagine si potranno scrivere, la vicenda rimane aperta. E già l’orecchio attento di Stefano, di Luigi, dei ragazzi, di tutti coloro che la casa ospita si tende ansioso ad un possibile suono del campanello. C’è una nuova sofferenza da alleviare, un nuovo cuore da accarezzare con una goccia di dolcezza.
S’avvia un passo, si apre la porta.
Il lavoro continua.

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